di Giuseppe Gaetano, editor in chief
Bassi rischi per qualità degli attivi e profili creditizi delle banche italiane, sebbene gli effetti di secondo livello dei dazi americani – al via in Italia e in Europa da venerdì 1 agosto – potrebbero influire sulla loro redditività.
È il giudizio di Scope sul criticato accordo commerciale Ue-Usa, che sta facendo molto discutere economia e politica. La “guerra” commerciale innescata oltreoceano è stata al centro degli ultimi interventi istituzionali del governatore di Bankitalia Fabio Panetta come del presidente ABI Antonio Patuelli, e naturalmente interessa da vicino anche il business delle assicurazioni. Per adesso l’unica incertezza che è stata finalmente sciolta è quella relativa a fatto che le aliquote saranno al 15% e scatteranno fra due giorni, ma restano tutte le altre legate al loro impatto e alle perduranti tensioni del contesto geopolitico generale.
Tuttavia, nonostante la maggiore esposizione ai dazi dei nostri istituti – rilevata da Palazzo Koch rispetto al resto del vecchio continente -, i comparti più vulnerabili alle imposte rappresenterebbero solo una quota tra il 6 e il 10% del portafoglio di finanziamenti lordi alle imprese, abbastanza diversificato settorialmente; almeno per quanto riguarda i 7 gruppi analizzati dall’agenzia di rating (Intesa Sanpaolo, Unicredit, Banco BPM, Monte dei Paschi di Siena, Mediobanca, BPER e Credem).
L’inevitabile rallentamento che il giro di vite di Donald Trump imporrà a una crescita economica già modesta, deteriorerebbe il credito solo in alcuni segmenti particolarmente colpiti; come la produzione di macchinari, che costituisce il 20% dei 64,7 miliardi di euro di esportazioni totalizzate verso gli Stati Uniti nel 2024.
Vedremo a breve i numeri delle imminenti prime semestrali ma, per il momento, va detto che nei bilanci delle banche non c’è traccia di Npl o sofferenze; anzi, secondo Cribis nel secondo trimestre sono aumentati i pagamenti puntuali e diminuiti i ritardi gravi. A marzo, comunque, il rapporto con gli impieghi si attestava in media al 2,8%. La prima parte del 2025 si è chiusa inoltre con un saldo di +32.800 aziende tra iscrizioni e cessazioni e, al 30 giugno, quelle indebitate rispettose delle scadenze sono salite in un anno dal 43,3 al 44% guidate dal Nord Est (54%), più affidabile di Sud e Isole (34%). Sul giro d’affari corporate restano decisivi i garanti pubblici, come emerso peraltro al recente Leadership Forum PMI di Roma: solo Sace ha mobilitato oltre 25 miliardi di euro nei primi 6 mesi, il 56% per progetti sul mercato domestico e il 44% per attività di export e internazionalizzazione, affiancando 62mila realtà (+21% a/a) sull’intero territorio nazionale. Ma non basta.
Certo è difficile prevedere che in queste condizioni la debole domanda di prestiti da parte delle aziende risorgerà nei prossimi mesi, visto che i dazi hanno già frenato il taglio dei tassi sia ufficiali che di mercato: ad oggi gli analisti stimano che il tasso sui depositi, dall’attuale 2%, raggiungerà appena l’1,75% entro fine 2026. Altre sforbiciate al costo del denaro eroderebbero ulteriormente i margini di interesse dei player, penalizzando la generazione di ricavi.
Ad ogni modo, anni di de-risking e attenta gestione del rischio di credito rendono il sistema bancario nazionale ben posizionato per le sfide future. Gli accantonamenti accumulati da inizio Covid, per perdite su crediti non assegnati, forniscono ancora un cuscinetto di protezione contro eventuali imprevisti. Soprattutto la redditività dei Big è più che raddoppiata nell’ultimo triennio: per il campione attenzionato da Scope, i rendimenti delle attività ponderate per il rischio sono aumentati al 3,1% nel 2024, con utili addirittura 13 volte superiori agli accantonamenti. Insomma, una solida e sicura base di partenza per reggere al pressing finanziario dei prossimi mesi.
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