di Cole Kendall, economista
La Fed ha annunciato che non avrebbe aumentato i tassi questo mese ma che resta fortemente impegnata a riportare l’inflazione al 2%, obiettivo ancora lontano.
L’indice meno rappresentativo dell’inflazione, il CPI principale (che include più variabili come alimentari ed energia) è sceso al 4,1% (anno su anno) da quasi il 9% di un anno fa. Sembra un progresso impressionante (ed è stato anche twittato dalla Casa Bianca), ma è problematico fidarsi di questo indice che, prendendo in considerazioni beni volatili – come appunto alimentari e costi energetici, che salgono e scendono per motivi non correlati ai movimenti generali dei prezzi – spesso conosce grandi fluttuazioni. Indici inflattivi basati sul CPI che tentano di compensare questi problemi includono il CPI medio, tagliato dalla Fed di Cleveland, che ha avuto un picco di circa il 7,3% lo scorso settembre ed è attualmente intorno al 5,5%.
L’indice di riferimento preferito dalla Fed, il PCE Core (calcolato in modo diverso, escludendo alimentari ed energia), ha raggiunto un picco del 5,4% lo scorso febbraio ed è attualmente sceso al 4,7%. Nessuna di queste misure è aumentata quanto il CPI, ma restano tutte molto distanti dall’obiettivo del 2%. Per raggiungerlo, i tassi di interesse dovranno mantenersi alti per un lungo periodo. La domanda è e resterà forte; qualsiasi misura di liquidità rimane più alta di quanto non fosse prima del Covid, indicando che le famiglie hanno molto denaro da spendere nei prossimi anni. Le famiglie con reddito inferiore alla media, però, stanno iniziando ad avere difficoltà a effettuare i pagamenti, e non mancano problemi in mercati particolari come l’immobiliare, dove i mutui al 6% scoraggiano gli acquirenti. Tuttavia, la spesa aggregata dovrebbe rimanere forte per i prossimi trimestri. La Fed dovrà mantenere i tassi correnti (o superiori) per molti trimestri prima che l’inflazione torni finalmente al 2%.
