di Giuseppe Gaetano, editor in chief
Se le varie avances in corso andranno a buon fine, il numero senza precedenti di annunci M&A di questi mesi è destinato sicuramente a rimodellare il nostro panorama bancario.
Secondo Scope Ratings il consolidamento è credit positive perché porta a maggiori economie di scala, potere di mercato e performance finanziarie a medio termine; “tuttavia le dinamiche competitive e puramente strategiche potrebbero comportare un rischio di esecuzione più elevato, come il pagamento di somme eccessive per le operazioni target o la stipula di combinazioni non ottimali” avvisano gli analisti. Del resto, va detto che – rispetto ad altri Paesi – il settore italiano è particolarmente frammentato, con un’accesa competizione fra Big, realtà regionali e cooperative: basti pensare che, allo stato, i primi 5 gruppi detengono meno del 50% degli attivi totali.
Non sorprende l’appoggio del governo all’integrazione tra Monte Paschi Siena e Mediobanca, desiderando da tempo creare un terzo grande player capace di competere con Intesa Sanpaolo e UniCredit: non è escluso che del dossier si occupi pure la Commissione Ue, a monte delle future negoziazioni.
L’esecutivo ha imposto comunque diverse condizioni all’offerta, che si aggiungono ai no di Eba e Bce all’applicazione del danish compromise all’acquisto di Anima da parte della controllata assicurativa BPM: tutti ostacoli all’approccio disciplinato del Ceo Andrea Orcel, per il quale i driver di crescita organica sosterranno comunque la performance nei prossimi 3-4 anni. Ad ogni modo, la vicenda finirà prossimamente nelle mani del Tar.
In base al campione considerato (Intesa, UniCredit, BPM, MPS, BPER, Mediobanca, Credem e Pop Sondrio) l’agenzia di rating rileva tuttavia che le banche italiane sono tra le più redditizie in Europa, grazie a elevati margini di interesse, costi del credito contenuti e miglioramenti di efficienza e qualità degli attivi: hanno registrato risultati record nel primo trimestre, con un ritorno medio sul capitale del 15,7% rispetto al 14,5 dello stesso periodo del 2024. Pur positive, le attese per il futuro sono più deboli per via del calo dei tassi “e perdite su crediti in fase di normalizzazione”.
Senza contare che “l’aggravarsi delle tensioni geopolitiche, inclusa una guerra commerciale con gli Usa, avrebbe ripercussioni” importanti sulla crescita economica, sull’andamento del costo del denaro e sulla solvibilità dei prestiti (in particolare alle imprese) mettendo così alla prova la resilienza del sistema. L’Italia è nella fascia supportive low, 4° gradino su 10: nel 2025 non è previsto un deterioramento significativo della qualità degli asset, specie lato retail, salvo una brusca recessione. I nostri player hanno rafforzato infatti i processi di monitoraggio e collaborano con servicer specializzati nella gestione degli Npl, il cui tasso si è attestato in media al 2,8% a fine 2024. Oltre all’impatto immediato dei dazi, vanno poi considerate le eventuali implicazioni derivanti da deregulation bancaria americana, interferenze con l’autonomia decisionale della Fed, modifiche al quadro di cooperazione internazionale.
Non mancano, purtroppo, i grattacapi forniti dal “nuovo corso” politico d’oltreoceano: osservando l’umorale e istrionica amministrazione Trump, l’Unione bancaria europea è vista sempre più come una benedizione.
I mercati finanziari hanno bisogno di certezze, anche spiacevoli, ma pur sempre certezze: aggiustamenti improvvisi e bruschi nella politica tariffaria innescano invece forti picchi volatilità: al momento vengono da qui le maggiori criticità per il futuro, anziché dai punti interrogativi posti da un risiko domestico ancora tutto da valutare.
Banche italiane col vento ancora in poppa, verso il primo semestre 2025