13 Novembre 2024

Banche italiane, ricavi Record anche nel 2024: il Credito langue, Margini e Commissioni no

di Giuseppe Gaetano, editor in chief

Giunte buona parte delle terze trimestrali, è tempo di bilanci: probabilmente non tutte le banche ripeteranno i record dell’esercizio 2023, ma di sicuro la maggioranza appare molto ben avviata a concludere il 2024.

Nonostante l’allentamento della stretta monetaria e gli impieghi in contrazione (-2,1% a/a), gli interessi netti dei primi 5 player italiani (Intesa Sanpaolo, UniCredit, BPM, BPER e MPS) segnano un deciso aumento (+7%). Stano all’analisi della Fondazione Fiba di First Cisl, gli impieghi delle Big sono in calo costante da 9 trimestri consecutivi per un totale di oltre 94 miliardi di euro (-7,8%), mentre a livello europeo le colleghe significant – fino al primo semestre – segnavano +3%. Gli istituti tricolori, e non solo i grandi, performano però meglio in Europa riguardo il peso delle commissioni (+7%) sul totale degli attivi (+1%). A fronte di costi operativi stabili, la redditività è sostenuta anche dal permanere di basse rettifiche su crediti, con un’incidenza sugli impieghi di 23 pb: il risultato netto dei primi 9 mesi arriva così a superare i 19 mld (+22,4%), con un Roe in aumento dal 13,3 al 15,7%. Sostanzialmente invariata la raccolta diretta (+0,6%), in aumento invece l’indiretta (+8,5%). Su valori record l’indice cost/income (40,1%); alta la qualità del credito; elevata la patrimonializzazione, con Cet1 ratio in leggero incremento al 14,92%.
Il problema rimane la continua discesa dei prestiti, che per il sindacato “si sta consolidando come un fenomeno peculiare del sistema bancario italiano” inspiegabile con la mera diminuzione della domanda e il ciclo economico negativo. Né conviene disimpegnarsi dal mercato, a favore di altre linee di business: “Servono politiche di offerta del credito ad hoc, mirate a stimolare investimenti per la trasformazione dei sistemi produttivi, e nuovi modelli di consulenza non condizionati dai margini sui singoli prodotti finanziari collocati” dice il segretario generale Riccardo Colombani, anche perché non s’intravedono rischi di deterioramento degli attivi e non c’è motivo di accrescere l’avversione al rischio.

Insomma dovrebbero quasi prendere ad esempio le banche etiche, per cui anche quest’anno l’erogazione di credito all’economia reale rappresenta il 70% degli attivi contro il 51,6% medio dei grandi gruppi europei, che preferiscono rivolgersi ad attività finanziarie di investimento, meno rischiose e costose in termini di impiego di personale e pratiche amministrative da lavorare. Certamente, tante sfide che anche nel 2024 hanno caratterizzato il mondo del lending si riproporranno nel 2025: mutui immobiliari lato retail e prestiti ESG alle imprese, in primis. E’ la G di governance il fattore più significativo da integrare nella raccolta, per ridurre il costo del finanziamento tramite obbligazioni.
Sulla stessa lunghezza d’onda l’analogo report di Morningstar DBRS, secondo cui dall’1 gennaio al 30 settembre l’utile netto aggregato dei 5 Big ha totalizzato 19,3 mld (+22% a/a). Capacità di generare ricavi, disciplina dei costi, capitalizzazione (CET1 ratio medio al 15,9%) e minori accantonamenti per perdite su prestiti “gettano le basi per mantenere lo slancio con le banche che si concentrano sempre di più sulle iniziative di reddito da commissioni” sostengono i ricercatori, d’accordo nel ritenere le recenti mosse di UniCredit su Commerzbank e di Banco BPM su Anima “coerenti con la ricerca di opzioni di distribuzione del capitale, che accrescono il valore in un contesto di tassi di interesse più bassi“. Il conseguente calo del margine d’interesse sarà più pronunciato nel 2025 e, secondo l’agenzia di rating, “solo in parte compensato dai benefici associati alle strategie di copertura e ai maggiori volumi di prestiti, in scia ai minori costi e alla calma dell’inflazione“.

Discorso a parte merita il fenomeno della chiusura degli sportelli bancari: 225 quelli chiusi nel periodo per la Fiba, per un -2,03% di occupati tra uscite ed entrate in organico. Secondo altri report in 10 anni gli sportelli si sono ridotti di oltre un terzo, accelerando via via il trend: ad oggi 3.300 comuni – il 41,5% del totale, con una popolazione di 10,4 mln di cittadini e 265mila aziende – non hanno una filiale. ABI fa però notare che a giugno scorso ce n’erano ancora più di 20mila attive sullo Stivale, e che in Italia hanno abbassato la serranda meno che in altri Paesi Ue: “Le banche non sono mai le prime che chiudono, ma se chiudono gli altri è difficile che restino aperti solo loro” ha fatto notare di recente il presidente Antonio Patuelli. E’ un serpente che si morde la coda: sicuramente è arduo restare in province che si spopolano, spesso perché mal collegate o valorizzate, dove chiude ogni genere di negozio per assenza di abitanti. A dirla tutta, per gli intermediari la cosiddetta “razionalizzazione” delle filiali costituisce in verità l’occasione di espandere il raggio d’azione, sostituendosi agli sportelli con i loro store su strada.
Resta il fatto che la biodiversità bancaria invocata da Bankitalia si è realizzata finora più a livello di specializzazione del business finanziario e creditizio, che di presenza territoriale di diverse tipologie di istituto, autonome rispetto a politiche di gruppo nella relazione col tessuto imprenditoriale e le realtà familiari dei luoghi in cui operano.

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